Onorevoli Colleghi! - Da quando si sono introdotte nell'ordinamento le misure alternative alla detenzione, molti hanno sottolineato che vi era un'incoerenza tra queste misure ed il modo in cui era ed è disciplinata la liberazione condizionale.
      L'istituto della liberazione condizionale fu introdotto in Italia, come è noto, per la prima volta con il vecchio codice Zanardelli del 1889.
      Il codice Rocco recepì l'istituto modificando la competenza per la revoca, rimessa al giudice dell'esecuzione, ma lasciando intatta la competenza a concedere la liberazione condizionale al Ministro di grazia e giustizia.
      Con successive modifiche, apportate dalla legge 27 giugno 1942, n. 827, e dalla legge 25 novembre 1962, n. 1634, la liberazione condizionale fu profondamente mutata rispetto al disegno originario; intanto venne modificato il periodo di pena da scontare per poter essere ammessi al beneficio, poi se ne consentì l'estensione ai condannati a pene brevi che, incoerentemente, ne erano esclusi, e, con la riforma del 1962, se ne consentì la praticabilità agli ergastolani che avessero scontato ventotto anni di reclusione.
      Con quest'ultima riforma, tra l'altro, si fece il primo passo, e sino ad ora l'unico, per eliminare il contrasto tra la pena perpetua dell'ergastolo ed il fine rieducativo delle pene voluto e sancito dall'articolo 27 della Costituzione. La legge n. 1634 del 1962 introduceva, però, un principio, quello del «sicuro ravvedimento» perché la liberazione fosse accordata e d'altro canto, prevedeva la revoca automatica del beneficio anche per violazioni di nessun rilievo (articolo 177 del codice penale: «La liberazione condizionale è revocata, se la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della

 

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stessa indole, ovvero trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata»). E, se non bastasse, modificò anche i presupposti oggettivi per la concessione, differenziandoli in caso di recidiva ed eliminando di fatto la possibilità di usufruirne per i condannati a pene brevi, poiché venne introdotto il principio che per fruirne occorreva aver espiato almeno trenta mesi di reclusione.
      Una importante sentenza della Corte costituzionale, la n. 204 del 27 giugno 1974, ha consentito di fare molti passi avanti verso la modernizzazione di questo istituto. Intanto essa ha affermato in maniera chiara la natura giurisdizionale del procedimento di concessione, sino ad allora rimessa al Ministro. Inoltre ha affermato in maniera esemplare un principio fondamentale «il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato».
      In conseguenza di questa sentenza il Parlamento è stato costretto a varare una nuova legge, la legge 12 febbraio 1975, n. 6, con cui è stata introdotta la competenza della corte d'appello del distretto in cui il condannato espia la pena al momento della presentazione dell'istanza di liberazione condizionale. Con la stessa legge si previde che il condannato potesse ripresentare la domanda solo dopo tre mesi dalla data di presentazione di altra domanda non accolta.
      Ma il 1975 è stato l'anno della riforma dell'ordinamento penitenziario (legge n. 354) e dell'introduzione delle prime misure alternative alla detenzione affidate alla competenza delle sezioni di sorveglianza appositamente istituite.
      Le misure alternative alla detenzione introdotte con la riforma consentivano di coprire un vuoto nella disciplina delle pene detentive brevi con l'affidamento in prova al servizio sociale per i condannati a non più di trenta mesi e con la semilibertà per i condannati a non più di sei mesi e per tutti coloro che avessero scontato metà della pena nel caso di pene superiori a sei mesi.
      Anche dopo la legge di riforma, e dopo la legge n. 6 del 1975, rimaneva in piedi una contraddizione tra le due discipline, specie per quanto riguardava l'autorità competente. Questa contraddizione è stata sanata con la legge 10 ottobre 1986, n. 663, che ha affidato la competenza a decidere sulla liberazione condizionale al tribunale di sorveglianza, nuovo termine per designare le vecchie sezioni di sorveglianza. Inoltre si è abbassato, con questa legge, il limite per la liberazione degli ergastolani da ventotto a ventisei anni, e si è allargata la applicabilità dell'affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà sino a pene non superiori a tre anni e si è consentito agli ergastolani di usufruire della semilibertà dopo vent'anni di pena.
      Specie dopo l'introduzione di queste norme è divenuto evidente che la mancanza di qualsiasi coordinamento tra l'istituto della liberazione condizionale e le misure alternative alla detenzione avrebbe potuto procurare conseguenze di sostanziale ingiustizia. Ad esempio, nel caso di pena detentiva compresa tra tre e cinque anni si verifica la strana circostanza che, essendo la metà di queste pene inferiori a trenta mesi, si puo accedere alla semilibertà prima della liberazione condizionale. Ma ancora nel caso di condanna a trent'anni si verifica questa situazione: il condannato puo essere ammesso alla semilibertà dopo quindici anni ma può accedere alla liberazione condizionale solo dopo venticinque anni e cioè dieci anni dopo aver ottenuto la semilibertà. Tale problema non è stato risolto dal regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative a limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, che si limita, all'articolo 104, a precisare le modalità di concessione della libertà condizionale.
      Dunque, se davvero si crede nei valori del recupero e del reinserimento sociale del detenuto non si può tollerare che si protragga una situazione di scoordinamento quale quella sopra descritta. Ed è per questa ragione che si è deciso di
 

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presentare la proposta di legge che, riformando l'istituto della liberazione condizionale, lo coordini con le riforme, con la «legge Gozzini» (cioè la citata legge n. 663 del 1986), nell'intento di rendere questo importante strumento di reinserimento davvero efficace e praticabile senza quelle limitazioni e quelle incongruenze che ne hanno limitato sino ad oggi l'efficacia e la portata.
      Occorre, cioè, creare le condizioni perché il tribunale di sorveglianza possa serenamente scegliere sulle misure da applicare senza che vi siano, ad esempio tra la semilibertà e la liberazione condizionale, differenze tali da renderle del tutto alternative.
      Per ottenere questo occorre che siano correlati i requisiti oggettivi necessari, poiché è evidente che mentre la semilibertà può consentire al detenuto di prepararsi ad affrontare anche dal punto di vista delle esigenze materiali la vita all'esterno, è attraverso la liberazione condizionale che si attua la risocializzazione completa del detenuto.
      Non dimentichiamo che dal 1982 per i «pentiti» non vale il requisito del residuo di pena inferiore a cinque anni per usufruire della liberazione condizionale; dunque estendere questo beneficio a tutti può significare anche dare un preciso segnale di uscita dalla legislazione dell'emergenza, eliminando un privilegio a favore di una categoria.
      Dunque poche norme di estrema chiarezza: 1) liberazione a metà pena per i detenuti a pene di qualsiasi durata, quando abbiano tenuto un comportamento che fa ritenere ingiustificato il protrarsi della pena detentiva (non più, quindi, l'indefinibile «sicuro ravvedimento» e non più limiti che penalizzavano coloro che avevano da scontare pene brevi); 2) l'ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale dopo vent'anni (e non ventisei); 3) nei casi di condannati con recidiva reiterata o specifica il limite per l'accesso alla liberazione condizionale diventa di tre quarti della pena inflitta; ove si tratti di condannato all'ergastolo, il limite è di ventisei anni. In questi casi la liberazione condizionale può essere concessa dopo due anni di semilibertà e lavoro esterno; 4) la liberazione condizionale può essere revocata se la persona che fruisce del beneficio commette un delitto o più contravvenzioni (e non una sola) della stessa indole; 5) in caso di revoca, valutata la condotta, il giudice detrae dall'esecuzione della pena una quota non superiore alla metà del periodo trascorso in libertà e nel caso che la revoca non dipenda dall'esito negativo del beneficio, l'intero periodo trascorso in libertà viene detratto dalla pena ancora da scontare.

 

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